In queste ultime settimane, si è tornato ad accusare chi manifesta per la libertà e l’autodeterminazione del popolo palestinese di non essere presente nelle lotte e nelle mobilitazioni “di casa nostra”: per i salari, per i contratti collettivi, per la salute. Che chi manifesta contro il genocidio e l’occupazione non si occupa dei “problemi reali” con cui ogni giorno bisogna confrontarsi.
Questa è una narrazione falsa; chi lo afferma mente sapendo di mentire, con l’unico obiettivo di dividere il fronte di lotta. Oppure non conosce la realtà delle lotte in questione, perché se ne tiene fuori.
Noi sappiamo, perché lo viviamo ogni giorno sui cantieri, negli ospedali, nelle fabbriche, nei negozi e negli uffici, che le lotte non si escludono fra loro, bensì si intrecciano e si alimentano. Il sindacato, che si mobilita su tutti questi fronti, sa che chi denuncia il genocidio in Palestina, spesso e volentieri è la stessa persona che sciopera per un contratto giusto e contro il precariato, che difende la scuola, la sanità e il proprio potere d’acquisto, che denuncia i continui aumenti dei premi delle casse malati, che non accetta il razzismo, che combatte l’omofobia e lotta in favore della parità. Perché chi s’indigna di fronte alle ingiustizie che accadono dall’altra parte del mondo, è capace di riconoscerle anche qui, nelle nostre vite quotidiane.
Perché le nostre battaglie nascono da una stessa radice comune: la giustizia sociale.
Essere sindacato significa riconoscere che le oppressioni si alimentano a vicenda — l’austerità che taglia salari e servizi è sorella dello sfruttamento coloniale e della guerra. La violenza che colpisce Gaza e la Cisgiordania è parte dello stesso sistema che, in Europa come altrove, precarizza le esistenze. Per questo non è possibile scegliere una solo causa per cui battersi: difendere la vita e la dignità in Palestina è parte della stessa lotta che viene portata avanti ogni giorno nei luoghi di lavoro, nelle piazze, nelle assemblee. Essere sindacato oggi significa saper leggere queste connessioni. Significa capire che la guerra, lo sfruttamento e l’austerità sono facce della stessa logica: quella che mette il profitto sopra le persone.
Perché non c’è pace senza giustizia sociale, e non c’è giustizia sociale senza solidarietà internazionale.
Chi oggi cerca di opporre “i lavoratori” a “gli attivisti”, “la giustizia sociale” alla “solidarietà internazionale”, dimentica che siamo le stesse persone: lavoratrici, studenti, pensionate, genitori, precarie, migranti, disoccupati, persone che ogni giorno costruiscono solidarietà e immaginano un mondo diverso. Un mondo dove la vita valga più del profitto, la dignità più del confine, la giustizia più dell’ordine.
Per questo non accettiamo la contrapposizione e non accettiamo la delegittimazione.
Noi ci riconosciamo in tutte le piazze che difendono la libertà, la dignità, la pace, il lavoro.
E continueremo a esserci — con la stessa voce, con lo stesso passo — perché nessuna liberazione è completa finché un popolo, una persona, una categoria resta oppressa.
Le lotte sono una sola e noi sappiamo da che parte stare.
